Sara Mingardo “Non sono una rock star, sono fortunata”


 

L’intervista: Sara Mingardo

 

“NON SONO UNA «ROCK STAR», SONO MOLTO FORTUNATA”

 

Il contralto Sara Mingardo

Il contralto Sara Mingardo

Un Grammy Award e un premio Abbiati, più una lunga serie di riconoscimenti per la qualità del canto. Sara Mingardo, il miglior contralto del panorama italiano, dopo il concerto alla Chiesa Collegiata di San Bartolomeo a Busseto voluto dall’associazione Favorita del Re – Centro Studi Romano Gandolfi, si è raccontata rispondendo ad alcune domande:

Quanto si sente “rock star”?
Non sono assolutamente una rock star. I Grammy in realtà sono due per la stessa registrazione diretta da sir Colin Davis che ha avuto tutto il merito dei premi. E’ un maestro straordinario, ha diretto questa opera gigantesca e lunghissima insegnando tutto quel che c’era da sapere.

Fa più il maestro della bravura propria?
Non è proprio così, però avere un maestro come Abbado o altri grandi nomi vuol dire molto. Metà della strada è già fatta perché danno loro tutte le informazioni possibili. Fare Monteverdi con il maestro Alessandrini vuol dire avere la strada spianata perché è una persona molto preparata. Ci sono onde magnetiche particolari che si sentono in quelle condizioni. Questo fa la differenza fra un grande maestro, uno mediocre e uno pessimo. Noi cantanti di riflesso non diamo il meglio in alcuni casi.

Il suo timbro e la sua voce sono riconosciute come fra le più importanti del firmamento, come ci si arriva?
Una parte è una dote naturale, il colore della voce è una caratteristica con cui si nasce. Poi c’è una parte che viene aiutata dal maestro, a me dicevano di ascoltare il suono e cercare la rotondità. Inoltre tutta la musica per contralto è molto bella, non ci sono arie spigolose. Infine il direttore d’orchestra fa lavorare per ottenere il meglio. E’ un equilibrio di piccole cose che danno un risultato. A me piace rubare un po’ da tutti. La ricerca continua, nella complessità dell’insieme.

Sa, però, di essere una voce unica nel panorama internazionale?
Non ci faccio caso più di tanto. Non speravo di fare la cantante, non avevo velleità. Sono entrata al Coro della Fenice a 21 anni e credevo di restare là. Ho conosciuto il maestro del coro Ferruccio Lozer da cui ho imparato moltissimo poi ho lavorato con Colin Davis, Gardiner, Abbado, Muti con Alessandrini e molti altri è molto più che vincere un terno al lotto. Si è accompagnati in un cammino che va da sé. So di essere fortunata nella vita, c’è un gioco celeste che mi ha messo in grado di fare quel che faccio.

Quanto è importante quindi il maestro di coro?
E’ una figura che si vede poco sul palco, magari nella musica sinfonica ma altrimenti sono persone che lavorano piuttosto nascoste dai riflettori. Sono spesso persone preparate e competenti per cui la loro funzione è insostituibile, sono importanti e nessuno se ne accorge. Sono coloro che impostano il colore di una voce, come usarla e sfruttarla al meglio. Le forme del legato e dello staccato mi sono state insegnate da Lozer che mi ha fatto comprendere come affrontarle e sfruttarle.

Bach diceva che nella musica devota la Grazia di Dio è sempre presente, anche cantando quanto la si percepisce?
E’ una cosa personale. Quando canto lo Stabat Mater di Pergolesi non posso dimenticare di rendere il brano il più spirituale possibile. Ogni cantante trova l’equilibrio in modo personale. Farei la stessa cosa anche se dovessi cantare qualcosa di non cattolico, la religione va sempre presa con delicatezza. Mi metto in una posizione di grande rispetto.

Silvio Marvisi
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