Pagine d’Amore


L’amore attraverso meditazione
e contemplazione di scrittori e mistici

 

 “Tardi ti ho amato, bellezza …”

 Le Confessioni, di S. Agostino (354-430)

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Tu, Signore, rimani in eterno, hai avuto misericordia, ed è piaciuto ai tuoi occhi, risanarmi. Mi agitavi con pungoli interiori per rendermi impaziente, fino a quando tu non fossi diventato una certezza. Sospinto a ritornare in me stesso, entrai sotto la tua guida nella mia intimità, e lo potei fare perché sei diventato il mio aiuto. Dunque entrai, e vidi con l’occhio della mia anima, per quanto debole fosse, sopra questo stesso occhio della mia anima, sopra la mia mente una luce immutabile, non questa luce comune, visibile ad ogni carne. E non era dello stesso genere, ma più grande, come se questa luce comune brillasse molto e molto più chiara e penetrasse l’universo col suo splendore, ma non era così, era diversa, molto diversa da tutte le luci di questa terra. Chi conosce la Verità la conosce, e chi la conosce, conosce l’eternità. L’amore la conosce.

O eterna verità, o vero amore e cara eternità! Tu sei il mio Dio, a cui sospiro giorno e notte. Quando ti conobbi per la prima volta, mi sollevasti in alto, affinché vedessi che c’era qualcosa da vedere, mentre io non potevo ancora vedere. E irraggiando fortemente in me, colpisti la fragilità del mio sguardo, e io tremai per amore, come se udissi la tua voce dall’alto: «Io sono il cibo dei forti, cresci e mi avrai.  Non tu trasformerai me in te, come il cibo del corpo, ma sarai tu ad essere trasformato in me». Sentii queste parole come si sente qualcosa nel cuore, e non c’era più alcun motivo di dubbio. Avrei dubitato più facilmente della mia esistenza che dell’esistenza della verità.

Non è sano il giudizio di coloro a cui dispiace qualcosa della tua creazione, come non era sano il mio, quando non gradivo molte cose tra quelle che hai fatto. Ma quando tu, senza ch’io lo sapessi, hai preso il mio capo e hai chiuso i miei occhi perché non vedessero la vanità, io mi ritrassi un poco da me, e la mia follia si assopì; e mi svegliai in te, e ti ho visto infinito. Poi rivolsi lo sguardo alle cose, e vidi che devono a te l’esistenza; e vidi che ogni cosa si accorda non solo col proprio luogo, ma col proprio tempo. Ma non ero costante nel godere del mio Dio, bensì mi sentivo rapito verso di te dalla tua bellezza e venivo subito strappato da te per il mio peso e ricadevo sulla terra gemendo. Ma rimaneva con me il tuo ricordo; solo che io non ero ancora capace di aderirvi; giacché il corpo corruttibile aggrava l’anima, e l’abitazione terrena deprime lo spirito con una moltitudine di pensieri.

Cercando, trovai l’immutabile e vera eternità della verità, e così ascesi per gradi dai corpi fino all’anima, che sente mediante il corpo, e di qui alla sua forza interiore, a cui la sensibilità corporea comunica la realtà esterna – è il punto a cui arrivano gli animali – e poi di lì alla capacità razionale, al cui giudizio viene trasmesso ciò che sale dai sensi del corpo. Allora intuii davvero quanto è invisibile, comprendendolo attraverso le cose create. Ma non ebbi la forza di tenervi fisso lo sguardo. E quando il contraccolpo della mia debolezza mi riportò alle solite cose, non portavo con me se non un ricordo amoroso, come il profumo di un cibo che non riuscivo ancora a gustare.

Ora cercavo la strada per procurarmi la forza sufficiente per goderti, ma non la trovai finché non ebbi abbracciato il mediatore fra Dio e gli uomini, l’uomo Cristo Gesù che é sopra ogni cosa, Dio benedetto nei secoli. Egli mi chiamò e disse: «Io sono la via, la verità e la vita»; e unì quel cibo, che io non ero capace di prendere, al mio essere, poiché il Verbo si è fatto carne.

Così la tua Sapienza, per mezzo della quale hai creato ogni cosa, si è cambiata in latte per la nostra infanzia. Non ero infatti ancora così umile da possedere il mio Dio, l’umile Gesù, e ancora non sapevo che cosa dovesse insegnarci la sua debolezza. La tua Parola, la verità eterna, innalza fino a sé coloro che gli si sottomettono; ed egli si è costruito con il nostro fango  un’umile dimora attraverso cui liberare da se stessi quelli che gli si dovevano sottomettere, e per attrarli a sé, guarendo l’esaltazione e nutrendo l’amore, affinché per presunzione non si allontanassero troppo, ma piuttosto li indebolì mostrando ai loro piedi la divinità fattasi debole per la partecipazione alla nostra tunica di pelle. Stanchi, si sarebbero sottomessi ad essa, ed essa, sollevandosi, li avrebbe elevati a sé.

Io ero invece di diversa opinione. In Cristo, mio Signore, altro non vedevo che un uomo straordinario che nessuno poteva eguagliare. Ma quanto mistero racchiudesse l’espressione Verbo fatto carne, non arrivavo neppure a sospettarlo. Un uomo riconoscevo e non la verità in persona; un uomo certo superiore ad ogni altro, unicamente per una superiore eccellenza della sua natura umana e per una partecipazione più perfetta alla sapienza. Ne parlavo in giro come fossi un perito sull’argomento. Avevo infatti già cominciato a voler sembrare un sapiente. Dov’era mai quella carità che edifica sul fondamento dell’umiltà, che è Cristo Gesù? O quando i libri me l’avrebbero potuta insegnare?

Tu hai voluto, quando poi fossi reso più mite, e le tue dita avessero curato le mie ferite, che potessi discernere la differenza che c’è fra presunzione e confessione, e potessi discernere fra coloro che vedono la meta da raggiungere ma non la strada che conduce alla patria felice non solo per vederla ma per abitarla. Mi gettai allora avidamente sui venerabili scritti del tuo Spirito, e anzitutto su quelli dell’apostolo Paolo, e imparai a esultare con tremore.

Iniziai dunque a leggere, e trovai la garanzia della tua grazia, affinché chi vede non si vanti, quasi non abbia ricevuto non solo ciò che vede, ma la stessa facoltà di vedere: infatti che cos’ha che non abbia ricevuto? Infatti non solo è sollecitato a vederti, ma anche a guarire per possederti.

Tardi ti ho amato, bellezza tanto antica e tanto nuova, tardi ti ho amato. Ed ecco che tu stavi dentro di me e io ero fuori e là ti cercavo. Eri con me ed io non ero con te.  Mi hai chiamato, hai gridato, hai infranto la mia sordità. Mi hai abbagliato, mi hai folgorato, e hai finalmente guarito la mia cecità. Hai alitato su di me il tuo profumo ed io l’ho respirato, e ora anelo a te. Ti ho gustato e ora ho fame e sete di te. Ora, con una coscienza certa, Signore, io ti amo. Hai trafitto il mio cuore con la tua Parola, e da allora ti ho amato.

Che cosa dunque amo, amandoti? Amo una certa luce e una certa voce e un certo profumo e cibo e abbraccio, amando il mio Dio luce, voce, profumo, cibo, abbraccio del mio essere interiore, dove rifulge all’anima mia ciò che nessun luogo contiene, e risuona ciò che nessun tempo rapisce, e profuma ciò che nessun soffio disperde, ed ha sapore ciò che nessuna voracità diminuisce, e aderisce una stretta che non è interrotta da alcuna sazietà. Questo è ciò che amo, amando il mio Dio.

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“Sale della terra e luce del mondo”

 S. Giovanni Crisostomo (c. 349 -407), Om. 15, 6. 7

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«Voi siete il sale della terra» (Mt 5, 13). Vi viene affidato il ministero della parola, dice il Cristo, non per voi, ma per il mondo intero. Non vi mando a due, o dieci, o venti città o a un popolo in particolare, come al tempo dei profeti, ma vi invio alla terra, al mare, al mondo intero, a questo mondo così corrotto. Dicendo infatti: «Voi siete il sale della terra», fa capire che l’uomo è snaturato e corrotto dai peccati. Per questo esige dai suoi quelle virtù che sono maggiormente necessarie e utili per salvare gli altri. Un uomo mite, umile, misericordioso e giusto non tiene nascoste in sé simili virtù, ma fa sì che queste ottime sorgenti scaturiscano a vantaggio degli altri. E chi ha un cuore puro, amante della pace e soffre per la verità, dedica la sua vita per il bene di tutti. Non crediate, sembra dire, di essere chiamati a piccole lotte e a compiere imprese da poco. No. Voi siete «il sale della terra». A che cosa li portò questa prerogativa? Forse a risanare ciò che era diventato marcio? No, certo. Il sale non salva ciò che è putrefatto. Gli apostoli non hanno fatto questo. Ma prima Dio rinnovava i cuori e li liberava dalla corruzione, poi li affidava agli apostoli, allora essi diventavano veramente «il sale della terra» mantenendo e conservando gli uomini nella nuova vita ricevuta dal Signore. È opera di Cristo liberare gli uomini dalla corruzione del peccato, ma impedire di ricadere nel precedente stato di miseria spetta alla sollecitudine e agli sforzi degli apostoli. Vedete poi come egli mostra che essi sono migliori dei profeti. Non dice che sono maestri della sola Palestina, ma di tutto il mondo. Non stupitevi, quindi, sembra continuare Gesù, se la mia attenzione si fissa di preferenza su di voi e se vi chiamo ad affrontare difficoltà così gravi. Considerate quali e quante sono le città, i popoli e le genti a cui sto per inviarvi. Perciò voglio che non vi limitiate a essere santi per voi stessi, ma che facciate gli altri simili a voi. Senza di ciò non basterete neppure a voi stessi. Agli altri, che sono nell’errore, sarà possibile la conversione per mezzo vostro; ma se cadrete voi, trascinerete anche gli altri nella rovina. Quanto più importanti sono gli incarichi che vi sono stati affidati, tanto maggior impegno vi occorre. Per questo Gesù afferma: «Ma se il sale perdesse il sapore, con che cosa lo si potrà render salato? A null’altro serve che ad essere gettato via e calpestato dagli uomini». Perché poi, udendo la frase: «Quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e diranno ogni sorta di male contro di voi», non temano di farsi avanti, sembra voler dire: Se non sarete pronti alle prove, invano io vi ho scelti. Subito dopo passa ad un’altra analogia più elevata: «Voi siete la luce del mondo». Nuovamente dice del mondo, non di un solo popolo o di venti città, ma dell’universo intero: luce intelligibile, più splendente dei raggi del sole. Parla prima del sale e poi della luce, per mostrare il vantaggio di una parola ricca di mordente e di una dottrina elevata e luminosa. «Non può restar nascosta una città collocata sopra un monte, né si accende una lucerna per metterla sotto il moggio». Con queste parole li stimola ancora una volta a vigilare sulla propria condotta, ricordando loro che sono esposti agli occhi di tutti gli uomini e che si muovono dinanzi allo sguardo di tutta la terra.