Romano Gandolfi, un Gattone al Teatro alla Scala


Leggi l’articolo dal blog di Luigi Alfieri

dalla Gazzetta di Parma del 19 agosto 1990

 

Romano, un Gattone al Teatro alla Scala

Ha il fisico robusto del mietitore rubato all’agricoltura, la faccia larga, occhi grandi e luminosi da eroe dei cartoni animati. Gli amici d’infanzia lo chiamano «Gatton», micione. Il nomignolo è azzeccato.

Romano Gandolfi, da Carnevala di Medesano, è parmigiano fino al midollo. Della sua vita non nasconde nulla.  Racconta sé stesso con lo stupore del ragazzo di campagna che ha fatto strada. In tutto il mondo è reputato il numero uno tra i maestri che dirigono masse corali; oltre a questo, è anche un affermato direttore d’orchestra.

La sua è una favola bella, tanto bella da meravigliare soprattutto lui, il grande maestro (questa definizione gli piace poco), passato dagli odori acri delle balere di campagna al podio della Scala e al celebre Gran Liceo di Barcellona.

Ultimo di quattro figli, due maschi e due femmine, è nato nel 1934, in piena era fascista, da Ugo, cantoniere di Medesano e Artemisia, «una donna dolce come il suo nome».

La parola vacanze nel vocabolario di casa Gandolfi non esisteva. «Le prime estati di cui ho memoria – spiega il musicista –  sono quelle di guerra. Le passavamo alla ricerca disperata di cibo. Io e mamma – di notte, per non farci vedere – andavamo nei campi a spigolare il frumento. Raccoglievamo due o tre sacchi ogni volta, quanto bastava per un chilogrammo di farina. Di giorno la musica cambiava. Avevamo dodici oche, alcune più grosse di me. Mio padre mi dava un bastoncino e io le portavo in giro per le campagne».

Il mare, così familiare ai ragazzi che vestivano alla marinara, figli della buona borghesia, era un miraggio lontano. «Lo vidi per la prima volta nel 1954, quando ero già un uomo. Il modo fu rocambolesco: dovevo fare una tournée a Oviedo in Spagna. Nessuno prenotò il biglietto. Viaggiammo trentasei ore in piedi, sempre affacciati ai finestrini. Giunto alla riviera ligure, scorsi per la prima volta la grande distesa azzurra: non nascondo di avere provato una certa emozione».

Infanzia povera, non infelice e nei ricordi del figlio dello «stradén» di Medesano vengono alla luce tanti momenti lieti. «Mi ritengo fortunato – ripete spesso – la vita con me è stata buona». Gandolfi nei suoi anni verdi ha avuto una grande amica e consolatrice: la musica, un vetro colorato, capace di tingere il mondo di rosa. «Tutto è cominciato quando avevo cinque anni. Il moroso di mia sorella veniva a farle la serenata e cantava con passione e voce stentata motivi sdolcinati. Un giorno dimenticò il suo mandolino in casa nostra. Lo afferrai, lo guardai un po’, pizzicai le corde. Infine, cominciai a strimpellare. Dallo strumento uscivano suoni limpidi e puliti. Musica e non rumore. Non capivo perché, ma con grande meraviglia, riuscivo a riprodurre qualsiasi motivo. Imparai subito le canzoni di chiesa, preferite da mia madre “Mira il tuo popolo” e la “Messa degli angeli”. Ma anche “Faccetta nera” e le canzoni del regime. Suonavo tutto il giorno e mio padre mi diceva: “Lassa lì un minut con col bagaj lì”».

Ma il mandolino non bastava più. Uno zio regalò al «Gatton» una fisarmonica. E Gandolfi capì in breve che la musica poteva essere una fonte di guadagno. «Imparai a familiarizzare con questo nuovo strumento da un contadino del posto, Pino Rastelli. Il mio secondo maestro fu Ubaldo Ferrari. Ubaldo lo rividi nel ’71 dopo avere diretto il Rigoletto al  Regio: “Al mé deva äd sïor”. Gli ho detto: “co’ sit matt?”. Grazie a loro imparai a suonare di tutto e divenni il preferito dagli osti della zona. Tutti mi volevano a suonare nei loro locali. Per Carnevale venivano da mia madre in cinque o sei e cominciavano a bisticciare. Mia madre preoccupata diceva: “Metiv d’acordi tra voietor basta ch’a m’al portì indré”».

Romano Gandolfi non si stancherebbe mai di parlare della sua adolescenza. Ha mille aneddoti da raccontare. Nel suo salotto, tappezzato di gigantografie color seppia riproducenti piazza della Scala a fine Ottocento – sono un regalo di Paolo Grassi – il tempo vola. Lo riportiamo al presente. Dal 1983, Gandolfi è l’eminenza grigia del più prestigioso teatro lirico spagnolo, il «Gran Liceo» di Barcellona. Ricopre il triplice incarico di consulente artistico, maestro del coro e direttore d’orchestra. I giornali di tutto il mondo si occupano di lui. Di recente «El Pais» uno dei più importanti quotidiani d’Europa, gli ha dedicato l’intera controcopertina. Ma parlare dell’oggi gli piace poco, teme di essere scambiato per un borioso e si rituffa nel passato.

«Avevo dodici anni. Era Carnevale. L’oste di Roccalanzona venne a prendermi con la slitta trainata dai cavalli. Nevicava a dirotto. Mi portarono in una sala piena di ragazze dalle vesti chiare e di contadini col fazzoletto al collo e le braghe di rigatino. Mi fecero sedere su una seggiola sistemata sopra il tavolo e cominciai a suonare. Continuavo a pensare alla neve che scendeva, non c’era niente che mi piacesse di più. Alle dieci in punto, con le lacrime agli occhi, smisi di suonare. L’oste, per farmi ricominciare, mi promise di tutto, soldi, caramelle, panini. Niente da fare. Co vot? – mi chiese – . Un pär äd sì, sionò an son’ni pù. Potere della musica: dopo pochi minuti possedevo i primi sci della mia vita. Al ritorno me li misi ai piedi e mi feci trainare dai cavalli dell’oste fino alla Carnevala. Quello sport mi prendeva quasi come la musica, sciavo anche sull’erba coperta di brina. Pure oggi, quando nevica, sono felice».

Anche nella vita di Gandolfi, come in quella di Verdi, c’è un Barezzi, che ha saputo sostenere la sua passione per la musica. E’ don Antonio Meneghetti, parroco di Medesano, che pagò di tasca sua le spese per mandare il piccolo Romano a Parma per prendere lezioni d’organo da monsignor Mario Dellapina, direttore del coro del Duomo. Don Antoni ci guadagnò un buon accompagnamento musicale per le funzioni della domenica, il vivace «Gatton» si rese conto una volta per tutte che le sette note erano la sua vita.

Fu monsignor Dallapina a convincere Ugo lo «Stradén» a mandare il figlio in conservatorio. Gandolfi, a soli vent’anni si diplomò in pianoforte e composizione all’Arrigo Boito di Parma. «Con dieci e lode» ci tiene a precisare.

Dopo il conservatorio vennero gli anni più duri. «Per guadagnare qualche soldo – ricorda il maestro – suonavo anche nelle orchestrine del liscio. Battevamo night e balere, senza mai fermarci. Fui ingaggiato dall’orchestra Thomas e Rodella. Il capo era un batterista che nella vita faceva il barbiere e spesso mi sgridava perché, secondo lui, suonavo male. Mi sembrava di non farcela più a saltar fuori, ma tenevo duro. Ho sempre pensato di essere fortunato e prima o poi l’occasione mi sarebbe capitata. Intanto passavo da una balera all’altra».

Alla fine, venne il momento buono anche per Gandolfi. Era il 1958. «Il maestro Furlotti doveva suonare il piano ad un concerto della corale Verdi. Si ammalò e mi chiese di sostituirlo. Finita la serata continuai a esibirmi alla tastiera per i pochi rimasti. Tanto per divertirmi un po’. Un signore si appoggiò al piano e ascoltò a lungo. Alla fine disse: “Al set ch’ät son’ni ben bombén?”. Quel signore era un direttore d’orchestra che andava per la maggiore negli anni ’50, Giuseppe Podestà».

Podestà ingaggiò Gandolfi come sostituto in un’opera da mettere in scena a Salsomaggiore. Il soprano era una giovane alle prime armi: Maria Callas.

«Nel coro di Salso cantava, occasionalmente, un certo Melegari, del complesso vocale della Rai di Milano. Pensi ai casi della vita! Il direttore del coro della radiotelevisione era il mitico Roberto Benaglio, che in quel tempo aveva deciso di lasciare il complesso e trasferirsi al teatro Bellini di Catania. Aveva bisogno di un sostituto e siccome i parmigiani gli erano simpatici, chiese a Melegari di fargli qualche nome. Lui pensò a me. “Al g’ha du occ cal pèra un gat” disse al grande maestro che aveva in simpatia i parmigiani».

Da quel momento la carriera di Romando Gandolfi è tutta in discesa: fu per dieci anni sostituto di Benaglio. Prima al Bellini, poi al Massimo di Palermo e, infine, dal ’63 al ’67 alla Scala di Milano, il tempio massimo della lirica.

«Lei mi chiedeva delle mie vacanze: ecco, quando ero sostituto alla Scala, andavo a Torre del Lago tutti gli anni. Non per fare i bagni di mare, ma per dirigere un coro di dilettanti. Le vacanze sono solo un’occasione per riconcentrarmi e partire in autunno più preparato di prima. L’agosto ’90, lo passo a Medesano, nella mia casa, con mio  fratello Enzo e gli amici di gioventù. Però, studio per quattro ore al giorno. Ci sono direttore che hanno le partiture in testa, io ho la testa nella partitura».

A proposito di direttore d’orchestra a chi vanno le preferenze di Romano Gandolfi?

«Ho lavorato con tutti i più grandi di questo secolo – dice. Poi si alza, ci conduce in sala da pranzo e mostra una fila di fotografie con dedica autografa dei mostri sacri del Novecento. Bernstein, Pretre, Abbado ed altri dello stesso calibro – ma il mio preferito è Carlo Kleiber: tutto quello che esegue è sintesi e fantasia. Certo, anche Karajan…».

E tra le opere? «Come maestro concertatore, ne ho dirette più di venti, salendo sul podio almeno 150 volte. Al primo posto metto la “Messa da Requiem” di Verdi, poi “Aida” e “Don Carlos”, ma come si fa a fare simili classifiche? Sono tante le grandi opere e i grandi maestri. Pensi ad Abbado».

Strappargli una graduatoria dei cantanti è impossibile. Un giorno dichiarò alla «Gazzetta di Parma» di preferire Bergonzi a Corelli. Qualche mese dopo il grande tenore lo aggredì nei camerini della Scala e ne nacque una rissa memorabile. «Da allora non mi sbilancio più».

Nel ’68 fare l’aiuto nel grande teatro milanese non gli basta. Vuole crescere, assumersi le responsabilità in prima persona. Per questo accetta di dirigere per tre anni il coro del prestigioso teatro Colon di Buenos Aires. E’ la consacrazione definitiva. Nel ’71, la Scala lo richiama come direttore dei suoi 107 coristi, incarico che manterrà fino al 1983, l’anno in cui si trasferì a Barcellona.

Il ragazzo di campagna, ora, è veramente qualcuno. Ma del successo non gli piace parlare.

Ecco la vacanza che «Gatton» non ha mai potuto fare: «Mi piacerebbe, un gennaio o l’altro, prendermi trenta giorni di riposo. Comprare un paio di sci e vedere se li so ancora usare». Come da bambino alla Carnevala.