Luigi Alfieri, Gazzetta di Parma: “La carriera di Gandolfi iniziò a 5 anni con un mandolino”


Luigi Alfieri, Gazzetta di Parma: “La carriera di Gandolfi iniziò a 5 anni con un mandolino”

 

dalla Gazzetta di Parma del 18 febbraio 2006 – pagina 9 di Luigi Alfieri
(clicca per scaricare il PDF)

 

La sua carriera cominciò a 5 anni con un mandolino

Nell’agosto del ’90, sul supplemento «estate» della Gazzetta,
uscì una lunga intervista-ritratto fatta al Maestro
dal giornalista Luigi Alfieri. Eccone un ampio stralcio.

 

«Le prime estati di cui ho memoria – spiega il musicista – sono quelle di guerra. Le passavamo alla ricerca disperata di cibo. Io e mamma – di notte, per non farci vedere – andavamo nei campi a spigolare il frumento. Raccoglievamo due o tre sacchi ogni volta, quanto bastava per un chilogrammo di farina. Di giorno la musica cambiava. Avevamo dodici oche, alcune più grosse di me. Mio padre mi dava un bastoncino e io le portavo in giro per le campagne».

Il mare, così familiare ai ragazzi che vestivano alla marinara, figli della buona borghesia, era un miraggio lontano. «Lo vidi per la prima volta nel 1954, quando ero già un uomo. Il modo fu rocam- bolesco: dovevo fare una tournée a Oviedo in Spagna. Nessuno prenotò il biglietto. Viaggiammo trentasei ore in piedi, sempre affacciati ai finestrini. Giunto alla riviera ligure, scorsi per la prima volta la grande distesa azzurra: non nascondo di avere provato una certa emozione»….

Gandolfi: «Imparai a suonare la fisarmonica da un contadino. Divenni il preferito dagli osti, tutti mi volevano nei loro locali»

…«Il mio rapporto con la musica è cominciato quando avevo cinque anni. Il moroso di mia sorella veniva a farle la serenata e cantava con passione e voce stentata motivi sdolcinati. Un giorno dimenticò il suo mandolino in casa nostra. Lo afferrai, lo guardai un po’, pizzicai le corde. Infine, cominciai a strimpellare. Dallo strumento uscivano suoni limpidi e puliti. Musica e non rumore. Non capivo perché, ma con grande meraviglia, riuscivo a riprodurre qualsiasi motivo. Imparai subito le canzoni di chiesa, preferite da mia madre Mira il tuo popolo e la Messa degli Angeli. Ma anche Faccetta nera e le canzoni del regime. Suonavo tutto il giorno e mio padre mi diceva: Lassa lì un minut con col bagaj lì». Ma il mandolino non bastava più. Uno zio gli regalò una fisarmonica. E Gandolfi capì in breve che la musica poteva essere una fonte di guadagno. «Imparai a familiarizzare con questo nuovo strumento da un contadino del posto, Pino Rastelli. Il mio secondo maestro fu Ubaldo Ferrari. Ubaldo lo rividi nel ’71 dopo avere diretto il Rigoletto al Regio. Al mé dèva äd sïor. Gli ho detto: co’ sit matt? Grazie a loro imparai a suonare di tutto e divenni il preferito dagli osti della zona. Tutti mi volevano a suonare nei loro locali. Per Carnevale venivano da mia madre in cinque o sei e cominciavano a bisticciare. Mia madre preoccupata diceva: Metiv d’acordi tra voietor basta ch’a m’al portì indrè». Anche nella vita di Gandolfi, come in quella di Verdi, c’è un Barezzi, che ha saputo sostenere la sua passione per la musica. E’ don Antonio Meneghetti, parroco di Medesano, che pagò di tasca sua le spese per mandare il piccolo Romano a Parma per prendere lezioni d’organo da monsignor Mario Dellapina, direttore del coro del Duomo. Don Antonio ci guadagnò un buon accompagnamento musicale per le funzioni della domenica, il vivace Gatton si rese conto una volta per tutte che le sette note erano la sua vita. Fu monsignor Dellapina a convincere Ugo lo Stradén a mandare il figlio in Conservatorio. Gandolfi, a soli vent’anni, si diplomò in pianoforte e composizione all’«Arrigo Boito» di Parma. «Per guadagnare qualche soldo – ricorda il maestro – suonavo anche nelle orchestrine del liscio. Battevamo night e balere, senza mai fermarci. Fui ingaggiato dall’orchestra “Thomas e Rodella”. Il capo era un batterista che nella vita faceva il barbiere e spesso mi sgridava perché, secondo lui, suonavo male. Mi sembrava di non farcela più a saltar fuori, ma tenevo duro. Ho sempre pensato di essere fortunato e prima o poi l’occasione mi sarebbe capitata. Intanto passavo da una balera all’altra».

Alla fine, venne il momento buono anche per Gandolfi. Era il 1958. «Il maestro Furlotti doveva suonare il piano ad un concerto della corale Verdi. Si ammalò e mi chiese di sostituirlo. Finita la serata continuai a esibirmi alla tastiera per i pochi rimasti. Tanto per divertirmi un po’. Un signore si appoggiò al piano e ascoltò a lungo. Alla fine disse: al set ch’ät son’ni ben bombén? Quel signore era un direttore d’orchestra che andava per la maggiore negli anni ’50, Giuseppe Podestà». Podestà ingaggiò Gandolfi come sostituto in un’opera da mettere in scena a Salsomaggiore. Il soprano era una giovane alle prime armi: Maria Callas.

Luigi Alfieri

 

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